CIBO: «SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO?»

DULCIS IN FUNDO

Il Biellese è considerato un’area di eccellenza in campo industriale. Il settore agricolo e enogastronomico, pur vantando una tradizione secolare e un paesaggio variegato, lo sono un po’ meno.
Tuttavia nella provincia si coltivano diverse varietà di prodotti, tra cui cereali, ortaggi, frutta e uva; prodotti che grazie a terreni fertili e al clima favorevole contribuiscono alla produzione di materie prime di qualità.
In particolare, il Biellese è noto per i suoi risi pregiati, come l’arborio, il carnaroli, e il Dop Baraggia, utilizzati per la preparazione di risotti e altri piatti tipici della cucina italiana, per i suoi vini – il nebbiolo -, per i suoi formaggi, i salumi, il miele, la sua acqua, la birra e i dolci tradizionali.
Ma è con la polenta concia (polenta con tome e burro locali), la paletta e i formaggi, che Biella e il Biellese si contraddistinguono in tavola.
Prodotti poveri che malgrado gli sforzi compiuti negli ultimi anni, non ci permettono ancora di competere con territori più vicini. Ed è così anche per il turismo.
A Biella e nel Biellese – parafrasando la teoria del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach – «siamo quello che mangiamo».
Oggi invece, la teoria è cambiata: «siamo ciò che guardiamo sullo schermo».
Se nel film del 1954 diretto da Steno e interpretato da Alberto Sordi, Un americano a Roma, al posto del maccherone ci fosse stata la polenta, chissà, quanto sarebbe diventata famosa e attrattiva la nostro provincia.
Per un attimo, abbiamo immaginato Alberto Sordi che interpretando Nando Mericoni, un giovane che sogna gli Stati Uniti e cerca di comportarsi come un americano, rientrato a casa trova la tavola pronta con la sua cena, ma anziché i maccheroni scopre la polenta.
Ecco come sarebbe cambiata la scena: «Polenta? Questa è roba da carrettieri, io non mangio polenta. Vino rosso? Io non bevo vino rosso. Sono americano, gli americani non mangiano polenta, non bevono vino rosso. Bevono latte e yogurt e mangiano marmellata e mostarda, tutta roba sana e sostanziosa». Poi guardando il piatto di polenta fumante davanti a sé, pronuncia la «famosa» frase: «Polenta, che mi guardi con quella faccia intrepida, mi sembri una polentona. Ammazza che zozzeria! Gli americani aho… Polenta, mi hai provocato e io ti distruggo, adesso, io me te magno».
Con i «se» e con i «ma» la storia non si fa. Malgrado quel piatto non sia finito nel film di Alberto Sordi, consoliamoci comunque. Perché quella «santa» polenta continua a rimanere l’unica eccellenza. Amen.

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L’INTERVISTA

Paolo Vizzari, narratore gastronomico, da Sky Arte alla fiera del Tartufo d’Alba è l’erede del ‘Re’ delle Guide, il papà Enzo

Biella scommetta sul vino

Il Biellese metta da parte l’orgoglio e si rimbocchi le maniche. Solo così la ristorazione e il turismo potranno crescere nel futuro

Paolo Vizzari, ‘enfant prodige’ classe 1990, è uno dei giovani narratori gastronomici emergenti. Nonostante una laurea in lettere, con una tesi di grammatica sperimentale su Gadda, ha deciso di seguire le orme del padre Enzo, uno dei critici più famosi in Italia e all’estero, scalando fin da subito ogni tappa e riscuotendo successi. Non ultimo, la partecipazione al format televisivo su Sky Arte, “Good Morning Italia”, condotto insieme a Joe Bastianich. Un viaggio goloso per narrare i territori italiani dal Friuli-Venezia Giulia alla Calabria.

– Dottor Vizzari, il Biellese dal punto di vista produttivo su quali eccellenze può contare?

«Per non dare la solita risposta scontata, in futuro è facile prevedere che bisognerà recuperare e puntare molto sulla produzione del vino. Per una questione scientifica e geografica il Biellese ha un’enorme potenzialità. Facciamo un esempio: per produrre nebbiolo, i nostri territori diventano interessanti sia per la posizione geografica, sia per le temperature meno rigide rispetto al passato. Questo è un settore che deve essere riconquistato».

– Lo stesso esempio virtuoso potrebbe venire dalla birra?
«Certo che si. Rispetto a qualche anno fa, in cui la birra aveva scalato le classifiche delle bevande con crescite esponenziali, oggi è un settore molto più stabile. É sicuramente un elemento della cultura gastronomica che appartiene al Biellese. Anche quando c’erano pochissimi locali, le birrerie ci sono sempre state e questo ha permesso la nascita di numerosi birrifici artigianali. Bolle di Malto, ad esempio, è una realtà ormai consolidata. Questo sta a significare che è necessario partire da quanto c’è di buono sul territorio e non buttare via l’”acqua sporca”, che è un dei più grandi sport biellesi».

– L’enogastronomia e la cultura del cibo, quindi, possono diventare una leva per il turismo?
«Sicuramente sono un buon viatico ma non saranno mai una leva decisiva. E mi spiego meglio: dobbiamo saper mixare. Avete delle eccellenze, avete dei singoli prodotti molto buoni, come i formaggi del Caseificio Rosso e Botalla, la gastronomia e le carni di Mosca che sempre più spesso servono chef stellati milanesi. Ma il problema di Biella e del Biellese non è la promozione o la produzione, ma è la ricostruzione valoriale e l’importazione delle competenze».

– Quindi l’unica vera eccellenza che possiamo vantare è la polenta?
«Assolutamente. Io stesso quando devo portare amici che arrivano a trovarmi a Biella, li porto a mangiare la polenta concia a Oropa. Quella è la vera peculiarità. Oltre ad essere un’eccellenza è il solo piatto che contraddistingue il territorio».

– È il nostro orgoglio quindi.
«Mah. Credo che il Biellese non debba essere troppo orgoglioso. Un esempio che spesso cito, è l’errore che i genitori fanno con i figli. Se è grassottello e gli vuoi bene a volte devi avere il coraggio di dirgli che è vero che sarai sempre stupendo e bellissimo, ma è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e di mettersi a praticare più sport. Questo è un po’ il problema di Biella. A noi critici spesso viene rinfacciato che siamo troppo severi e dovremmo essere più aperti all’incoraggiamento. Ma l’incoraggiamento ci vuole quando inizi a fare bene. Prima ci vogliono i ceffoni…».
«Vede, il turismo ha bisogno di un tessuto locale felice. Io ho la fortuna di lavorare in realtà importanti, la Fiera del Tartufo d’Alba, le regioni Friuli Venezia Giulia e Sicilia. Sono Regioni diverse che hanno un unico comune denominatore: la gente del luogo è felice, orgogliosa, perché si sente parte di quel territorio e quando arrivano i turisti li coinvolgono. A Biella finché non attiviamo questa mentalità, coinvolgendo soprattutto i giovani, saremo sempre un posto vecchio che non potrà far altro che attirare turisti legati al pellegrinaggio a Oropa. Perché in verità, guardando i numeri, la maggior parte dei turisti raggiunge il Santuario».

– Quindi, cosa occorre fare per invertire questa tendenza?
«Dobbiamo imparare a parlare con la lingua di chi ascolta. Se vogliamo attirare i giovani non basta pensare al ciclyng o alla silver age, ci vogliono i video games, il metaverso. Pensi a Biella quante occasioni avremmo con tutte le strutture immobiliari a basso prezzo. Potremmo diventare il paradiso di tutti i gamers italiani. Nel mondo digitale non farebbe differenza collegarsi da qualsiasi parte del Mondo, che sia Biella o New York, ma se un gamer vivesse nel Biellese certo che farebbe la differenza, perché il costo dell’affitto è basso ed è un luogo qualitativamente bello. Sarebbe un’opportunità pazzesca. Ma occorre cambiare mentalità e visione».

– Questo vale anche per la ristorazione?
«Sulla ristorazione ha ragione mio padre. A parte qualche locale, il Biellese è piuttosto scarso. Quando alcuni ristoratori mi chiedono di dare qualche consiglio ai loro cuochi, rispondo così: non servono consigli, occorre una formazione di qualità. Spediteli alla corte di qualche chef stellato e vedrete che nell’arco di pochi anni la qualità dei ristoranti crescerà notevolmente. L’ho visto succedere in mezzo mondo, da Coopenaghen a posti imbrobabili. Dove c’è benessere puoi creare una meta gastronomica in cinque anni, però, ci devi portare formazione, competenza e investire denaro, coinvolgendo i privati che costruiscono hotel e ristoranti».
«Infine – aggiungo – che per rilanciare un territorio non servono grandi eventi, servono piccole attività di qualità. C’è, per concludere, un buco di pensiero che va colmato».

Michele Porta

LA MAPPA DEL BIELLESE: I RISTORANTI SUPERANO I BAR

La mappa della ristorazione biellese negli ultimi 10 anni tutto sommato tiene. Le imprese registrate alla Camera di commercio Monte Rosa Laghi Alto Piemonte lo conferma: il settore a fine 2022 è formato da 1.132 aziende, mentre a fine 2012 erano 1.160. Una leggera flessione imputabile in tutto e per tutto ai bar: erano 569, ora sono 514, pari ad un -10%. La sopravvivenza di molte attività è stata messa a dura prova dalla stagione pandemica e oltre una cinquantina hanno gettato la spugna. Un deficit che è stato in parte colmato da una categoria che nel 2012 era cumulata con altre: quella dei servizi di catering per eventi. Oggi queste attività sono ben 29 ed è chiaro che proprio il Covid ha favorito la crescita di questo segmento quando i lockdown imponevano di restare a casa o comunque al chiuso. E chi si è abituato ad usare il catering continua a farlo nelle mille occasioni di raduni famigliari o, oggi, aziendali o per altri eventi.

Scorporati i bar, la fetta più grossa della mappa delle imprese è oggi rappresentata dai ristoranti che sono saliti al primo posto con 583 esercizi in aumento di 17 unità sul 2012. Una maggior diffusione dell’offerta spalmata a macchia di leopardo, ma che caratterizza come centro di crescita più importante la piazza del lago di Viverone che nel 2012 aveva 11 ristoranti e 18 bar e oggi ha 17 ristoranti e 17 bar. Biella, per esempio, conferma la rete delle proprie attività di ristorazione: fra trattorie, sempre meno, ristoranti tradizionali e pizzerie le attività sono 217, quattro in più di 10 anni fa. Sono i bar ad avere pagato la crisi: 20 in meno in 10 anni, da 227 a 207.
Un paese turistico come Candelo ha invece affinato l’offerta con 13 ristoranti (erano 16) e 13 bar (erano 16). Così come Sordevolo che ha più che raddoppiato l’offerta di ristorazione con 8 locali tradizionali e 3 bar (erano 3 i ristoranti e 4 i bar). Meno importante l’offerta in valle del Cervo dove risultano tra Campiglia (oggi fusa con San Paolo Cervo e Quittengo), Piedicavallo e Rosazza dove risultano 3 ristoranti (erano 6 nel 2012) e 6 bar (erano 3): un capovolgimento di fronte dovuto probabilmente alle diverse esigenze della clientela.
Anche Cossato, che denuncia una importante contrazione commerciale, conferma tuttavia la propria rete di ristorazione con 85 imprese contro le 82 di 10 anni fa: 45 le attività di ristorazione (erano 43) e 38 i bar (erano 37).
Anche Valdilana con 55 attività conferma una mappatura che nel 2012 era frantumata nei quattro comuni di Trivero, Valle Mosso, Mosso e Soprana.
Sono pochissimi i casi in cui non esiste alcuna attività di fornitura di alimenti lavorati nel Biellese: se non c’è un ristorante o pizzeria (come a Mezzana, Ronco Biellese, Rosazza, Selve Marcone, Sostegno, Strona, Torrazzo) c’è in paese almeno un bar.

Roberto Azzoni

IL TERRITORIO AGRICOLO BIELLESE VALE IL 3% DEL PIEMONTE

Il biennio appena trascorso non è stato facile per l’agricoltura piemontese e biellese, messa di fronte innanzitutto alla gravità dell’emergenza climatica, che si è manifestata provocando una forte crisi idrica che ha interessato tutti i settori agricoli; alla crisi economica, che sta spingendo con forza il settore verso le trasformazioni già intraprese alla fine del secolo scorso e accelerate ulteriormente dagli sconvolgimenti portati dalla diffusione della pandemia e dalle tensioni internazionali sfociate nel conflitto russo-ucraino.
Sul piano del mercato, le frequenti crisi finanziarie hanno portato molte aziende ad orientarsi verso una maggiore segmentazione e qualificazione dell’offerta al fine di una miglior valorizzazione delle produzioni e di sottrarsi alle crisi delle «commodity».
Sul piano territoriale si è notevolmente allargata l’influenza della cosiddetta «economia del gusto» che ha contribuito al rilancio di alcune aree rurali della regione.

Come sono cambiati i numeri

Rispetto all’ultimo censimento 2010 dell’agricoltura piemontese (di cui pubblichiamo i dati nelle tabelle qui sotto) dal punto di vista strutturale, il 36% del territorio piemontese è destinato alla produzione agricola: dei 923.428 ettari di SAU (Superficie Agricola Utilizzata), nel biellese si contano solo 28mila ettari (il 3% del Piemonte), una superficie frammentata sia dal punto di vista aziendale (una media di 21 ha/azienda) sia dal punto di vista settoriale.
Il numero delle aziende agricole è fisiologicamente in calo da alcuni decenni. Negli ultimi cinque anni si è passati da 52.324 a 49.632 aziende, con un calo medio annuo dell’1% circa. E il Biellese non è da meno.
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Il numero di addetti nelle ultime annate è, invece, rimasto stabilmente poco sopra le 70.000 unità. Il calo delle aziende riguarda soprattutto le aziende marginali con minore professionalità e condotte da titolari di età più elevata. Aumenta, quindi, la dimensione media aziendale mentre il settore progredisce in termini di propensione all’innovazione e agli investimenti.
In questo senso, un dato positivo riguarda la presenza di titolari con meno di 40 anni, in crescita anche grazie alle politiche del Psr a partire dal 2016 e che nel 2022 hanno raggiunto il 14% del totale, pari a 6.656 aziende.

Il comparto alimentare

L’industria alimentare si è consolidata dopo un forte ridimensionamento causato dalla crisi economica, stabilizzandosi su una consistenza di circa 4.400 aziende (nel 2007 erano poco più di 7.000).
Il valore della produzione del settore agricolo, silvicolturale e della pesca piemontese ammontava nel 2021 a circa 4,2 miliardi di €, in ripresa dopo la negativa annata 2020. Se si depura questo dato dalla parte reimpiegata nel settore si ottiene il valore aggiunto regionale che ammontava a 1,95 mld di €. L’aumento dei costi di produzione di molte materie prime (+23% medio nel corso del 2022 per il settore agroalimentare) ha inciso notevolmente sulla redditività delle aziende piemontesi spingendo verso l’alto i prezzi all’origine di molti prodotti con ricadute a catena su prezzi all’ingrosso e al consumo.
Il Piemonte da sempre risulta importatore netto di prodotti agricoli (2,34 mld di € contro 0,57 mld di export) ed esportatore di prodotti trasformati (import 2,09 mld di € ed export 7,0 mld).
Il settore primario destina la gran parte dei propri prodotti al mercato interno: tra le poche produzioni primarie esportate va citata la frutta fresca (soprattutto mele e kiwi) mentre per i prodotti trasformati, sono numerose le produzioni destinate all’export come vino, caffè e prodotti dell’industria dolciaria. La crisi internazionale del 2022, dopo le iniziali preoccupazioni legate ad alcuni blocchi commerciali, non sembra aver inciso sul risultato finale dell’export regionale (+15% per prodotti agroalimentari), mentre più rilevanti sono state le criticità in entrata a causa dell’aumento dei prezzi delle materie prime, su tutti quelli energetici.

Produzioni Agroalimentari

Il principale elemento fondante del successo delle produzioni agroalimentari piemontesi è rappresentato dai prodotti di qualità certificata DOP e IGP, ovvero legati al territorio di origine: in Piemonte sono 23 le denominazioni nel settore alimentare e 59 nel settore del vino. La ricchezza del territorio piemontese è anche riconosciuta in 341 produzioni tipiche regolamentate sotto la dicitura PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale).
Le produzioni biologiche sono in crescita da alcuni anni, con 3.215 aziende piemontesi che aderiscono a questo regime di produzione e una superficie coltivata di poco superiore ai 51.000 ettari (erano 22mila nel 2019) con una distribuzione tra le diverse colture molto frammentata e con prevalenza di cereali, foraggere, vite e frutta a guscio.
Allargando lo sguardo alla componente terziaria della filiera agroalimentare, spicca la notevole crescita delle aziende ricettive (alloggio e ristorazione) che in molte aree della regione sono strettamente collegate al settore primario grazie alla diffusione della cosiddetta enogastronomia. Questa categoria è cresciuta molto nell’ultimo decennio attestandosi poco sotto le 30.000 unità. Il turismo rurale evidenzia sia l’aumento costante dei flussi turistici sia l’evoluzione dell’offerta ricettiva, grazie alle circa 1300 aziende agricole che praticano agriturismo.
Tra le altre forme di diversificazione più diffuse vi sono le fattorie didattiche e l’agricoltura sociale mentre cresce il ruolo delle aziende agricole nell’offerta di servizi legati sia alla sfera ricreativa che a quella dei bisogni sociali e assistenziali, in particolare nelle aree urbane e periurbane.

Testo a cura di Stefano Cavaletto
IRES Piemonte (aggiornamento giugno 2023)

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