Clima: situazione grave. Serve un cambio radicale

L’INTERVISTA A ROBERTO MEZZALAMA

Roberto Mezzalama, lei è uno dei massimi esperti in campo ambientale. Alcuni esperti dell’Ipcc (Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) sui cambiamenti climatici già alcuni anni fa ci aveva avvertito: «L’Italia subirà mutamenti climatici tali da rendere poco vivibili le pianure e in particolare le città».

– È cambiato qualcosa rispetto ad allora?

«Purtroppo sì, ma in negativo. Il nostro mediterraneo è un’area che si surriscalda maggiormente rispetto alle altre aree del resto del Mondo, così come le Alpi. Ci troviamo in un territorio piuttosto complicato da qualsiasi lato lo guardiamo. L’Italia ha un clima e condizioni geografiche diverse e fenomeni come la desertificazione e il crollo dei ghiacciai. Se qualcosa è cambiato, sicuramente è cambiato in peggio. A sostenerlo è proprio l’ultimo assessment dell’Ipcc che rivela un quadro peggiore e un’accelerazione dei fenomeni climatici in aumento».

– Siccità, desertificazione, temperature medie estive fuori controllo, rendono invivibile anche il Biellese. La situazione è foriera di cambiamenti epocali. Occorre prepararsi al peggio?

«Dobbiamo prepararci perché c’è una scarsa consapevolezza della gravità della situazione, soprattutto da parte della politica, che non si rende conto dei rischi cui andiamo incontro. Secondo i modelli climatici il Biellese, che ha punti di forza e di debolezza, essendo un’area prealpina con condizioni orografiche particolari non dovrebbe subire cambiamenti drammatici, almeno questo si pensava fino all’anno scorso, ma con i mutamenti dei parametri che abbiamo visto quest’estate, le condizioni sono cambiate. Per contro, essendo un’area morfologicamente complessa la espone a fenomeni estremi come temporali, grandinate e ‘flash floods’ (alluvioni lampo) che, in un breve periodo, scaricano a terra una quantità eccezionale d’acqua: insomma è preoccupante. Quindi, dobbiamo prepararci al peggio perché la situazione non è destinata a migliorare. Se anche fossimo in grado di ridurre le emissioni nell’immediato, la CO2 presente in atmosfera rimarrà stagnante per cent’anni e, queste alterazioni del clima, le vivremo per decenni».

– Si parla da tempo di contenere il rialzo del surriscaldamento globale entro 1,5 °C. È un’utopia?

«Contenere il riscaldamento entro un grado e mezzo è ancora possibile. Certo ogni giorno che passa diventa sempre più un’utopia. Siamo molto lontani dagli obiettivi e con le ultime politiche annunciate, a seguito dell’accordo di Parigi, rischiamo di andare incontro ad un innalzamento delle temperature di circa 3 gradi entro la fine del secolo. Un livello catastrofico che rischia di mettere in discussione la sopravvivenza della specie umana. In alcune aree del mondo come il Qatar, tanto per fare un esempio attuale, benché abbia vinto la candidatura ai mondiali con la promessa di ridurre le emissioni di gas serra, la temperatura è aumentata di un grado (e per la costruzione degli stadi sono morti oltre duemila nepalesi). La capacità di contenere la temperatura entro 1,5° in linea teorica è possibile ma nella pratica è sempre meno probabile: ci sono troppi ostacoli e difficoltà di carattere politico ed economico. Le Cop confermano che i risultati sono inferiori alle attese e gli impegni presi non raggiungono gli obiettivi che Parigi si era prefissata».

– Quindi che scenario ci aspetta? Per l’inverno e per la prossima primavera.

«Una risposta in merito è difficile da formulare. Quasi impossibile fare previsioni stagionali. Ci sono centri come l’Ecwmf (Il Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine) che le fanno, ma vanno interpretate. L’ultimo dato che ho letto parlava di un’anomalia termica positiva e di precipitazioni negativa: più caldo e meno pioggia. Oggi siamo in una situazione di deficit idrico con poche piogge rispetto ai mesi di ottobre e novembre degli anni passati. Fare previsioni meteo oltre la settimana è un’esercizio quasi inutile».

– Tra i pericoli in corso c’è anche il rischio di perdere zone fertili e produttive?

«Tra i rischi c’è la perdita di zone fertili. In alcune parti del mondo è già avvenuta in maniera massiccia. Tanto per fare qualche esempio, abbiamo perduto interi laghi come, il lago Ciad in Africa, il lago d’Aral tra Uzbekistan e Kazakistan o il Mali che ha perduto 200 km di latitudine di zone coltivabili. Oggi rischiamo di perdere molte aree coltivate in Sicilia, Puglia e in Sardegna. In Italia abbiamo perduto negli ultimi anni fino al 25% di produzione di cereali e al 40% di alcune colture frutticole. Il suolo contiene miliardi di micro organismi per cm3 ed ha un ecosistema molto delicato che viene danneggiato dal riscaldamento del clima. Inoltre continuare a coltivare alcuni prodotti come il mais nella Pianura Padana per alimentare maiali e mucche, perché consumiamo molta carne, è un aspetto dell’uso del suolo che dovremmo abbandonare».

– Per intervenire subito cosa dovrebbero fare le istituzioni?

«Quello che dovrebbero fare le istituzioni sta scritto nell’accordo di Parigi, ovvero, lavorare per dimezzare le emissioni entro il 2030 e azzerarle entro il 2050. Per ridurre l’effetto serra dobbiamo concentrarci su alcuni settori, quali: la produzione di energia, i trasporti, il patrimonio edilizio, l’industria e infine l’agricoltura e l’allevamento. Sul settore energetico, con investimenti con tempi di ritorno di circa tre-cinque anni, avremmo un margine di risparmio del 20/25%; con tempi di ritorno fino a dieci anni possiamo puntare a costruire edifici ad emissione zero. Per quanto riguarda le fonti rinnovabili, l’Italia non è messa malissimo ma si è fermata per la mancanza di autorizzazioni a costruire nuovi impianti: siamo ostaggio del ministero dell’ambiente e degli enti locali. Sbloccare le autorizzazioni è oggi indispensabile. Per quanto riguarda le energie da nucleare, non credo che gli impianti oggi siano realizzabili nei tempi per affrontare la crisi climatica, ma, se avessimo centrali in Italia funzionanti, le terrei comunque aperte. Infine dobbiamo affrontare il problema dei trasporti: il nostro Paese è al secondo posto in Europa, dopo il Lussemburgo, per tasso di motorizzazione. Troppe auto vengono utilizzate male soprattutto in città. Se pensiamo che il maggior numero di spostamenti avviene su tragitti inferiori a tre chilometri, be’, potremmo tranquillamente fare uso delle biciclette. L’obiettivo primario è ridurre l’uso delle auto e potenziare la realizzazione di piste ciclabili e il trasporto pubblico. Quando vivevo nel Biellese e andavo a scuola, gli autobus erano il triplo. Negli ultimi anni si è andati in una direzione contraria. Per concludere, direi infine che dobbiamo intervenire nel settore agricolo e nell’allevamento degli animali che producono un eccesso di metano protossido di azoto, forti elementi dell’aumento del gas ad effetto serra. Insomma ci vuole un cambio di mentalità e di atteggiamento sia da parte della popolazione sia da parte di chi ci governa: servono scelte coraggiose. La situazione è molto grave, occorre fare delle scelte: arrivare dieci minuti più tardi in ufficio pedalando, anche se può sembrare un problema, nei prossimi anni potrebbe migliorare la qualità della nostra vita».
Michele Porta

CHI È ROBERTO MEZZALAMA

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Roberto Mezzalama, svolge da oltre vent’anni un ruolo apicale in una multinazionale di ingegneria ambientale. Collabora con l’Università di Harvard ed è membro del consiglio di amministrazione del Politecnico di Torino. La sua attività professionale lo ha portato a lavorare in oltre venti Paesi in Europa, Nord America, Africa e Asia Centrale, entrando in contatto diretto con gli effetti del cambiamento climatico: dallo scioglimento del permafrost in Canada, alla desertificazione delle savane dell’Africa. Dal 1995 al 1999 è stato Assessore all’Ambiente e Vice Presidente della Provincia di Biella.

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