La cultura per vivere non ha bisogno della politica

L’INTERVISTA A LUCA SCARLINI

– Professor Scarlini, perché una città ricca come Biella e un territorio come il Biellese non ha saputo coniugare l’arte dell’eccellenza con la cultura?

«Il perché – ci spiega il professor Scarlini – credo sia collegato allo spopolamento. Biella è una città che nel passato aveva un numero alto di persone che giungevano alla città e con il tempo le ha perdute: evidentemente non ha suscitato una nuova generazione imprenditoriale che ha puntato sulla cultura. Funziona così nei luoghi segnati da un investimento industriale forte. Di norma, proprio questi luoghi sono quelli che beneficiano della cultura. Come è accaduto ad Ivrea che, vedova per decenni dal modello Olivetti, ha saputo rilanciarsi con un festival letterario culturale (sta funzionando bene da oltre dieci anni) che ha cambiato la configurazione del turismo rispetto al passato. Un festival, in genere, nasce in un luogo che prima aveva un’altra storia, agricola o industriale, perché ha la necessità di rilanciarsi. I grandi festival nelle città come Edimburgo, Aix-en-Provence o Avignone, ne sono l’esempio. Nascono nel ‘47 dopo il disastro della seconda guerra mondiale in territori che erano molto arretrati e alcune persone illuminate ritennero necessario fare un rilancio. Di lì nasce una nuova economia completamente diversa».

– Che ruolo può aver giocato il lavoro in una città come la nostra?

«E’ chiaro che il lavoro è stato la religione a Biella. Però, come tutte le città fortemente industriali, devono a un certo punto fare memoria della propria esistenza e rilanciarsi. Per cui non è un caso che a Biella ci sia stato un lavoro molto importante sugli archivi (l’archivio Sella per citarne uno). Un capitale, quest’ultimo, per poi fare un rilancio che s’incrocia come è accaduto per il Festival #Fuoriluogo. Quindi, se non si lavora sul passato non ci può essere un futuro. È la regola di qualsiasi azione culturale».

– Cosa pensa di Biella Capitale della Moda?

«Se la moda semmai esiste ancora, perché il sistema è in crisi, la Capitale in Italia è Milano. Purtroppo, devo constatare che viviamo nell’epoca delle parole magiche, dello storytelling incantesimo: dici una parola e pensi di cambiare la realtà. Ma la realtà è ben diversa: o realizzi lavori negli anni, piano, tranquillamente o altrimenti non cambia niente».
«Tutto rimane estremamente statistico. I ricchi sono ricchi, i poveri sono poveri. Si finisce per andare soprattutto a cena e Biella ha un numero elevato di ristoranti… nel Piemonte, negli ultimi vent’anni c’è un’insistenza del cibo un po’ paranoica, mi pare… che per carità è importante, ma non può essere l’unico valore di una civiltà».

– Ma Biella non eccelle per cucina o piatti tipici…

«Per esempio, anche se non mangio i dolci e il cioccolato, ci sono i canestrelli. E’ un prodotto che si potrebbe segnalare come dolce tipico con una sua tradizione. Non è il mio business, ma in passato ho lavorato con persone che lo fanno e su prodotti tipici come la regione Toscana; questo potrebbe essere un prodotto davvero interessante. Mi sembra che tutto sia dato un po’ per scontato, non c’è mai uno sforzo di fare un racconto vero di quelle che sono le cose che la città può offrire».
A Biella, nel passato, abbiamo avuto personaggi illustri come i La Marmora, Riccardo Gualino, Giuseppe Pella, Quintino Sella. A differenza della frase di Abbado, la nostra città sembra più vicina alla frase di Tremonti: «Con la cultura non si mangia». Platone, nel suo capolavoro dialogico «La Repubblica», affermava la necessità di un deciso ruolo politico per la cultura, auspicando «un governo dei filosofi che, in quanto unici a possedere il sapere, avrebbero retto lo Stato con leggi razionali e giuste volte al bene comune e alla convivenza pacifica tra i propri membri».

– Oggi la classe politica è inadeguata o incapace di una visione più ampia?

«La classe politica è sempre stata inadeguata, non solo oggi. In Italia è raro che sindaci o presidenti di regione abbiano investito sulla cultura. Certo, ci sono stati dei casi – le eccezioni per fortuna ci sono sempre – però molto poche. Sono per lo più gruppi di persone, imprenditori singoli. Sono gli operatori culturali che si devono mettere insieme. L’esempio in Italia è il festival della Letteratura di Mantova che ha portato una città, che si era dimenticata che esisteva solo per gli storici dell’arte, ad avere una visibilità mediatica su tutti i giornali quotidiani e televisioni del mondo. Un esempio che viene studiato da tutte le facoltà economiche. Un fatto culturale complesso che di fatto ha rilanciato una città».

– I Comuni biellesi investono poco o nulla sulla cultura. Come mai la politica ha scelto di conquistare il populismo tralasciando il rapporto politica e cultura?

«E’ un discorso complicato. La questione di fondo è che la cultura, sovente, per vivere non ha bisogno della politica. La politica scopre la cultura molto più tardi della sua apparizione. Faccio un esempio banale: Primo Levi quand’è uscito la prima volta con il libro “Se questo è un uomo” è stato giudicato dalla politica inopportuno, poi oggi ci fanno strade, centri culturali e tutto il resto. Purtroppo spesso la politica non la capisce, non ci azzecca al primo momento, non ne comprende il peso e il valore. Per cui la cultura dovrebbe essere supportata dalla politica per potersi diffondere e per raggiungere pubblici che altrimenti non avrebbero la possibilità di conoscere fatti culturali, quali, le famose periferie su cui la politica ne esce sempre malissimo esportando progetti di seconda mano, dove l’assessore di turno si reca per fare un selfie e successivamente dice che ha investito su di esse. Paolo Grassi, uno dei più grandi imprenditori teatrali del dopoguerra, portava le periferie alla Scala di Milano in repliche specifiche mescolandole con il pubblico delle “sciure” e dei signori eleganti. La cultura non può essere un fatto di casta o strumento di oppressione».

– Sulla questione delle disuguaglianze di genere oggi presenti nel nostro paese, quanto conta l’aspetto culturale?

«La cultura è un ambito in cui le disuguaglianze esistono, ma meno che nel business. Abbiamo avuto grandi scrittrici del novecento che si sono affermate ben prima che affermarsi come dirigenti di banca o di industria. Questo non è detto che non ha a che vedere con il denaro, si può essere famosi e non necessariamente bestseller. Le scrittrici importanti italiane del novecento, come Anna Banti o Gianna Manzini, hanno scritto libri importantissimi ma non bestseller. Credo e va affermato, come principio politico principale, che essere bestsleler non è una condizione di qualità di niente; infatti, spariscono perché da una generazione all’altra tramontano. I bestseller degli anni cinquanta giustamente non se li ricorda nessuno e quelli di ora fra cinquant’anni nessuno se li ricorderà».
Michele Porta

CHI È LUCA SCARLINI

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Luca Scarlini, narratore, scrittore, performer, curatore di mostre, voce della radio, racconta storie d’arte.
Tra i suoi libri recenti: Rinascimento babilonia (Marsilio), L’ultima regina di Firenze (Bompiani), Bompiani Story (Bompiani)

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